Lorenteggio e Giambellino
Vi propongo una visita, anzi due. Ci dirigeremo infatti verso la periferia sud-ovest di Milano, e più precisamente al Lorenteggio, altrimenti detto Giambellino (quello del Cerutti Gino che fa pure rima). In effetti i due nomi, Lorenteggio e Giambellino, sono pressoché intercambiabili: il primo è il nome antico e botanico della zona (dal latino tardomedievale laurus, cioè lauro), mentre Giambellino era il soprannome di Giovanni Bellini, valente pittore veneziano del ‘400 cui è stata dedicata una via da quelle parti.
Tutta la zona un tempo era ampiamente fuori le mura, con pochi abitanti dediti principalmente all’agricoltura, ma che poi, come un po’ tutte le periferie milanesi, è letteralmente esplosa, in senso urbanistico e sociale, nel dopoguerra. Ed è proprio da allora che parte il racconto di quella che i milanesi definiscono affettuosamente la “geseta di lusert”, ovvero la chiesina delle lucertole, che in quegli anni è divenuta il simbolo riconosciuto del Lorenteggio e dalla quale parte la nostra passeggiata.
In effetti la denominazione ufficiale dell’oratorio (perché tale è) sarebbe, anzi è, oratorio di San Protaso al Lorenteggio. Una minuscola capanna che è lì da sempre, orientata verso il solstizio d’estate come si usava in epoca pagana. Ma è quel “lì”, cioè la sua bizzarra collocazione moderna, che ha reso popolare la chiesina, che sembra calata dal cielo sullo spartitraffico di via Lorenteggio, sommersa dalla morsa dai palazzoni che la circondano e con il traffico che sfreccia su entrambi i lati. La storia è presto detta. Negli anni ’50 il Comune espropriò i terreni agricoli della zona per allargare via Lorenteggio da una a due corsie. E la chiesetta venne destinata alla demolizione. Non l’avessero mai fatto! Gli abitanti della zona, che vedevano distruggere l’ultimo baluardo della storia del quartiere, insorsero all’unisono e tanto dissero e tanto fecero che il progetto stradale venne rivisto e la chiesetta inserita nello spartitraffico appositamente allargato.
Costruito nella forma attuale verso l’anno Mille dai monaci benedettini di San Vittore al Corpo, l’oratorio passò successivamente alle Madri Angeliche (quelle della Guastalla), a loro volta sostituite dagli Olivetani. Ma non importa a chi fosse affidata, la chiesetta era amatissimo luogo di culto per i contadini del borgo che qui coltivavano i gelsi per le preziose sete della corte sforzesca. Secondo la leggenda, anche il Barbarossa vi sostò in preghiera nel 1162 per chiedere al Signore la vittoria sui milanesi e, ottenutola, risparmiò l’edificio dalla distruzione. Trasformato in lazzaretto durante le pestilenze, finì per essere utilizzato come fienile e deposito d’armi dalle armate napoleoniche.
Si narra inoltre che l’oratorio, ancora quand’era sperduto tra i campi, fosse stato scelto come base dal conte Federico Confalonieri e dai suoi adepti per organizzare i moti rivoluzionari del 1820 approfittando del fatto che si poteva raggiungere l’oratorio attraverso un cunicolo che lo collegava a Sant’Ambrogio, entro le mura della città, o addirittura al Castello Sforzesco. Ma questa storica via di fuga è stata chiusa in fase di restauro negli anni ’80, senza che sia mai stato riscoperto l’intero percorso.
La struttura della chiesetta, una delle più piccole di Milano, è molto semplice. In stile romanico-lombardo è a pianta rettangolare, tetto a capanna e soffitto in legno a cassettoni. A occhio può ospitare al massimo una quarantina di persone, la metà delle quali in piedi. La sorpresa sono gli affreschi, di epoche diverse, che compaiono inaspettatamente qua e là sulle pareti trattate a calce. Come quello sulla parte bassa dell’abside, di epoca medievale, con scene di caccia e un bestiario, mentre nella parte alta si staglia un dipinto barocco di fine ‘600 che rappresenta la Madonna del Divino Aiuto attorniata da angeli e santi.
Narra la leggenda che l’affresco della Madonna, coperto per tre volte da una imbiancatura a calce, riaffiorasse ogni volta più nitido che mai, facendo abbandonare l’idea di utilizzare l’oratorio come abitazione e alimentando l’indefessa venerazione dei fedeli. Sulla parete di sinistra compare invece una Santa Caterina da Siena datata 1428 (o 98) firmata da un certo Fra’ de Porta Vercellina, che risulta essere una delle opere più antiche che ritraggono la Santa. Ai bei tempi andati risale anche la denominazione popolare della chiesina, cioè “la gésetta di lusert” per via della presenza di numerose lucertole sui muri, una particolarità che ha ispirato una celeberrima ode milanese di Piero Mazzarella, che non sto a recitarvi perché purtroppo il mio milanese non è assolutamente all’altezza.
Ma lasciamo San Protaso e attraversando il nuovo quartiere Assisi, dove le vie profumano di fiori (via dei Gelsomini, delle Rose, dei Gigli e dei Giacinti) o risuonano del cinguettio degli uccelli (via dell’Allodola, dell’Usignolo, della Rondine o dello Storno) approdiamo alla vicina e modernissima chiesa di San Giovanni Battista alla Creta, che si staglia, nel mezzo di un’ampia radura verde, come una vela al vento. “Dio fornisce il vento ma l’uomo deve alzare le vele” diceva Sant’Agostino. E ad issare una straordinaria vela al Giambellino è stato, nel dopoguerra, Giovanni Muzio, l’architetto che ha disegnato tanta parte della Milano del Novecento, dalla Ca’ Brutta all’Università Cattolica, dal Palazzo dell’Arte al Sacrario dei Caduti.
Particolarmente legato ai francescani e a padre Enrico Zucca, il fondatore dell’Angelicum che lo “raccomandò” per questo incarico (come se ce ne fosse bisogno) all’allora cardinale Montini, il Muzio espresse la summa della sua creatività di luoghi sacri nella progettazione e costruzione di questa parrocchia dedicata a San Giovanni Battista “alla Creta”, a ricordo della vicina, omonima cascina di antica memoria. Va ricordato che nel 1956 in questa zona sorgeva il cosiddetto “villaggio svizzero”, un insieme di prefabbricati donati dalla Svizzera per una sistemazione provvisoria dei milanesi che avevano perso la casa durante la guerra. I francescani, che si erano adeguati, prestavano assistenza spirituale, e non solo, da una baracca, e proprio la loro condizione precaria motivò la vedova dell’industriale Giovanni Cabassi - su sollecitazione dell’arcivescovo - a finanziare la costruzione di una nuova chiesa su un terreno di sua proprietà. In cambio della donazione di tutto il comprensorio che includeva, oltre alla chiesa, il convento per i frati, l’oratorio e gli uffici parrocchiali, la benefattrice, signora Luisa Farina, chiese semplicemente la possibilità di includervi una piccola e riservata cappella funeraria di famiglia. Autorizzazione immediatamente concessa.
Per chi è in vena di “churching”, il consiglio è quello di arrivare da via del Passero (fermata Inganni della M1 rossa) e la chiesa apparirà frontalmente con l’imponente copertura a vela (la sua impattante caratteristica) che si staglia sul sagrato. Sulle pareti esterne in mattoni a vista, ma anche all’interno, il simbolo ricorrente è quello del triangolo, cioè lo Spirito Santo, una raffigurazione comune a molte culture, dove la punta verso l’alto rappresenta il Divino. Sulla sinistra della facciata, sporge un piccolo pulpito, probabilmente mai utilizzato, ma messo lì a memoria di antiche tradizioni tardo-medievali.
La planimetria dell’interno è affascinante. Costruita attorno alla figura stilizzata di un giglio, si schiude e si illumina procedendo lungo la navata centrale sovrastata da un soffitto a vele spezzate con decorazioni di Mario Zappettini e Giacomo Manzù. L’altare maggiore è affiancato da quattro altari (due per lato) da cui dipartono due strette navate laterali cadenzate da sei colonne ciascuna a simboleggiare i 12 apostoli. All’ingresso, una specie di vestibolo (tecnicamente detto “nartece”) ospita sulla sinistra il battistero e sulla destra la sobria (e privatissima) cappella funeraria dei Cabassi di cui sopra.
Assolutamente da scoprire il penitenziario (o “chiesina”, come viene affettuosamente definita dai parrocchiani), al quale si accede dal lato destro dell’altare maggiore. Vivido e brillante, è dedicato a Sant’Antonio, la cui vita e opere sono rappresentate dai coloratissimi affreschi anni ‘60 di Pompeo Borra e Lina Sotilis, un ciclo figurativo completo che reinterpreta in chiave naif il clima e le atmosfere della pittura romanica.
E per finire un aneddoto divertente che accompagna la statua seicentesca di Sant’Antonio nella classica posa col bambino in braccio che troverete sul lato sinistro della chiesa. La statua ad un certo punto (non vi so dire quando) venne considerata “inappropriata” (per non dire sconcia) per via che il bambino era nudo. E tanto dissero e tanto fecero i malpensanti che, per salvare Sant’Antonio, si dovette arrivare a modellare, attorno alle pudenda del Bambino, il solito panno riparatore. Proprio come accadde ad Adamo nella Cappella Sistina!
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