L’uno pittore della vita, l’altro della morte; l’uno ispirato dalla fede, l’altro dal dolore; uno dipinge la nascita, l’altro la morte; uno uomo di punta del Rinascimento, l’altro ottocentesco precursore dell’Espressionismo più tormentato e dannato.
Sandro Botticelli e Edvard Munch. A prima vista non potrebbero esserci due pittori più diversi l’uno dall’altro. Eppure sono uniti da un elemento che ha influenzato non poco la loro produzione artistica: la tubercolosi.
Ma procediamo a piccoli passi partendo dal pittore norvegese.
Edvard Munch nasce a Løten, poco lontano da Oslo nel 1863, secondo di cinque figli. Nel 1868, quando ha poco più di quattro anni, la madre muore di tubercolosi, così come una sorella nove anni dopo. Per combattere la malinconia che lo opprime, il padre lo introduce alla lettura. Purtroppo, però, gli fa scoprire il genere psicologico horror di Edgar Allan Poe, il che, tutto sommato, non si rivela una grande idea. La malinconia del figlio per altro colpisce lo stesso padre e sfocia in un pietismo morboso ed in una sindrome maniaco-depressiva.
In seguito Munch riassumerà gli anni della sua formazione con la frase “Ho ereditato due dei più spaventosi nemici dell'umanità: il patrimonio della tubercolosi e la follia”.
Una volta intrapresa la professione di pittore, incontra e diviene amico di Hans Jæger, anarchico scrittore anticonformista che esorta i discepoli con l'imperativo “Scrivi la tua vita!” Ed è così che nascono i quadri “La fanciulla malata”, “La morte nella stanza della malata” e “La madre morta e la bambina”, con cui cerca di esorcizzare il passato e la morte che lo aveva accompagnato quando era solo un bambino.
Ma anche “L’urlo”, la sua opera più famosa, come ha scritto Alessandra Cocchi è “metafora della disperazione e della morte che nasce nell’individuo, esce, travolge, spazza via tutto, poi torna nell’individuo distruggendolo.”
E Botticelli, direte voi, cosa c’entra? Figlio della Firenze rinascimentale, stilisticamente opposto, elegante, raffinato, con personaggi dai lineamenti gentili, i colori accesi, un pittore di arte sacra e allegorie…
Ecco il punto, le allegorie. Come evidenziato in una pubblicazione uscita sulla rivista Acta Biomedica e scritta dal chirurgo Davide Lazzeri, studioso della medicina nell'arte, nei due quadri più famosi di Botticelli compaiono dei polmoni.
Per la precisione nella “Primavera” (come già ipotizzato da altri due ricercatori: Benjamin Blech e Roy Doliner) si può vedere la forma di due polmoni alle spalle di Venere, che la abbracciano, facendone risaltare la figura, dei buchi nella vegetazione che illuminano la scena incorniciando la dea al centro del quadro.
Mentre la “Nascita di Venere” ha, come tutti sanno, la figura di Venere centrale, in piedi su una conchiglia, ma sulla destra c’è una fanciulla che si avvicina per coprirla e proteggerla con un manto rosa ricamato di fiori. Se si osserva esclusivamente questo mantello, si può vedere la forma di un polmone dai contorni irregolari, quasi danneggiati. Ma perché mai Botticelli avrebbe dovuto dipingere dei polmoni? La risposta è davanti agli occhi ed è una delle tre Grazie della “Primavera” (quella centrale, per essere precisi) nonché la stessa dea Venere dell’altro quadro o, meglio, la giovane donna che Botticelli ha ritratto.
Questa era Simonetta Cattaneo Vespucci, nota come “La bella Simonetta”, una giovane nobildonna fiorentina, amata da Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo il Magnifico, che, ammalatasi di tubercolosi, morì a soli 22 anni.
Certamente questa è solo un’ipotesi e la mancanza di documenti scritti non può né confermarla né smentirla, ma c’è un altro punto a favore di questa teoria: a distanza di 34 anni dalla scomparsa della sua ipotetica musa, Botticelli chiede espressamente, una volta passato a miglior vita, di essere sepolto nella Chiesa di Ognissanti, proprio di fianco a Simonetta.
Ma magari quelli che si vedono non sono davvero polmoni e magari quella ritratta non è neanche Simonetta Cattaneo ma, come dice Carlo Lucarelli, “in fondo, più bello di così, come fai a non crederci?”.
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