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Immagine del redattoreAlberto Pandiani

Non se ne salva una!

Quando si parla di donne malate di tubercolosi nell’arte, nove volte su dieci si ricordano la “gelida manina” della Mimì di Puccini, la Traviata di Verdi o la Nicole Kidman di Moulin Rouge!, ma chi sono questi personaggi, da dove “nascono”?


Copertina del libro "Scene di vita di Bohème" di Henri Murger
"Scene di vita di Bohème"

Tutto inizia a Parigi tra il 1847 e il 1849 quando Henri Murger, uno sconosciuto e squattrinato scrittore, pubblica un romanzo d’appendice sul Corsaire-Satan. Si tratta del semiautobiografico “Scene della vita d’artista” (poi ri-intitolato “Scene della vita di Bohème”), un insieme di avventure vissute da quattro artisti perennemente senza soldi (ispirati a personaggi reali) che abitano nel quartiere latino di Parigi. Tra i vari personaggi frequentati dalla combriccola c’è Mimi, una giovane fioraia che ha una storia travagliata con uno dei quattro (il poeta Rodolfo) poi sposa un visconte, lo lascia, torna da Rodolfo gravemente malata (probabilmente di tubercolosi, anche se la malattia non viene mai nominata) e, alla fine… attenzione spoiler in arrivo… muore. I racconti di Murger piacciono talmente tanto che dopo qualche anno vengono raccolti e pubblicati come libro vero e proprio.

Sempre in quel periodo, precisamente nel 1848, intanto che Murger pubblica il suo romanzo a puntate, nel giro di un mese Alexandre Dumas figlio scrive il suo romanzo più famoso “La signora delle camelie, e poco dopo lo adatta per farne anche un dramma teatrale.

Ma qual è la storia dietro all’opera di Dumas? Tra il 1844 e il ‘45 (cioè 3-4 anni prima) Dumas ha una breve relazione con una certa Marie Duplessis, diventata poi contessa di Perrégaux, una famosa cortigiana dell’epoca, morta di tubercolosi a 43 anni. La sua tomba al cimitero di Montmartre (dove peraltro riposa anche la salma di Dumas) è tuttora meta di pellegrinaggi, ma sto divagando... In ogni caso, saputo della morte di Marie, Dumas scrive “La signora delle camelie”, cioè la storia d’amore di Margherita, una donna malata di tubercolosi di non grande reputazione (Dumas scrive “il vostro amor è di chi lo paga”) e di Armando, un uomo più giovane di lei. Questo amore è però contrastato dalla famiglia di lui, perché il loro rapporto diventa di pubblico dominio e sua sorella sta per sposarsi con una famiglia che non vuole rischiare di essere collegata in alcun modo alla donna. Altro spoiler: alla fine i due si riuniranno e subito dopo lei muore.

Il plot è molto semplice ma, data la tragicità dell’opera, il contesto in cui è ambientata ed anche il modo di vivere di Margherita, ha immediatamente un successo clamoroso. Una sera Giuseppe Verdi assiste ad una delle prime rappresentazioni, se ne innamora e, fatto scrivere il libretto da Francesco Maria Piave, compone “La traviata”, che debutta già l’anno successivo (nel 1853, quindi) e che ha sùbito dei problemi con la censura per la critica alla società borghese e per il soggetto scabroso.

Locandina de "La traviata" di Giuseppe Verdi

Oggi, a distanza di 170 anni è ancora una delle opere liriche più rappresentate al mondo. Ma cosa rende ancora oggi questa opera così speciale? Ne parliamo col direttore d’orchestra Dario Garegnani.

"Se Verdi, in un certo senso e da tanta storiografia tradizionale, è sempre stato considerato un compositore quasi terricolo, Traviata appartiene a un periodo della vita di Verdi in cui il compositore era quanto mai internazionale. Ha risieduto a Parigi per tantissimo tempo e la genesi di Traviata è una genesi internazionale, non una genesi tanto nel solco dell’opera italiana strettamente detta. Verdi prende gran parte dei materiali di Traviata da materiali sonori di un mondo che in realtà è lontanissimo da quello italiano, che è quello dell’opera di boulevard francese. L’opera di boulevard è un’opera commerciale, mi verrebbe da dire, del tutto impropriamente ma giusto per farci capire, una specie di musical, basato in parte sull’attualità, in parte su un suono, che è quello della Parigi di quegli anni, che quindi non è quello dell’Italia risorgimentale. È proprio un affresco con una tavolozza diversa, e forse proprio questa tavolozza diversa rende Traviata così speciale e così interessante ancora oggi."

 

Torniamo adesso all’Ottocento, verso la fine questa volta: nel 1893, per la precisione (40 anni più tardi). Giacomo Puccini e Ruggero Leoncavallo si sfidano a duello ma non con spade o pistole, bensì con penna e pentagramma musicale: chi farà l’opera migliore tratta da “Scene della vita di Bohème”? Dopo quattro anni i lavori sono conclusi e il pubblico dichiara indiscusso vincitore il Puccini. Maestro?

Locandina de "La Bohème" di Giacomo Puccini

"Lo scontro-incontro e confronto tra le due Bohème, quella di Puccini e di Leoncavallo, si inserisce nel contesto, ovviamente, del teatro musicale italiano di quegli anni, che è fatto anche di scelte editoriali e di case editrici a confronto. Puccini pubblica per primo Bohème sotto i titoli di Ricordi, Leoncavallo per Sonzogno, che è l’editrice rivale. Le scelte sono diversissime: Leoncavallo preferisce seguire alla lettera la struttura del romanzo e cerca di dare un quadro d’insieme, di fare un’opera veramente corale, improntata sulla coralità della scena. Puccini, invece, scrive secondo quella che è la sua tecnica: insomma, una scrittura molto cinematografica, fatta a tinte molto vivide, in cui però il baricentro di tutto è la storia d’amore Mimì-Rodolfo all’interno di una scena corale, e l’effetto è magnifico perché è come se la macchina da presa virtuale musicale entrasse e uscisse dalla vita dei personaggi, e continuiamo a trovare alternanze tra campi molto stretti a luci molto soffuse di primi piani molto stretti e molto delicati (quando si tratta di disegnare i due personaggi innamorati), poi il campo si allarga improvvisamente, si riempie di luce, si riempie di contrasti, si riempie di rumore e di suoni e la vita, da fuori, entra ed esce nella storia più intima, più raccolta dei due innamorati."

 

Naturalmente sia la Traviata che la Bohème, come d’altronde tutte le opere liriche, rendono al meglio quando godute a teatro, ma vale la pena di citare almeno due versioni di quest’ultima fruibili sul divano di casa. La prima è la ormai mitica Bohème del 1963 alla Scala di Milano con la regia di Franco Zeffirelli e la direzione di Herbert von Karajan, che a fine anni ’70 lo stesso regista toscano definisce come “la cosa più riuscita di tutta la mia carriera operistica” e, ancora, “Lo centrammo allora. Fu una di quelle cose benedette! (…) Eravamo evidentemente vent’anni avanti del nostro tempo, perché sedici anni dopo è ancora salutato come l’ultima parola sull’allestimento di Bohème”. Per una volta Zeffirelli, che per l’occasione ha organizzato una nevicata totalmente credibile all’interno del teatro scaligero, pecca di umiltà perché, ancora l’anno scorso, dopo 60 anni, la Scala ha rimesso in cartellone la sua versione dell’opera.

Seconda versione, quella del 2022, diretta da Mario Martone, ambientata negli anni ’60 del secolo scorso, e che è interessante in quanto si tratta di un film vero e proprio e non solo di teatro filmato.

Ma la Bohème si è fatta strada anche nel cinema non cantato. Già nel 1912 compare il primo film, di Albert Capellani (che lo rifarà anche quattro anni dopo), mentre la prima produzione hollywoodiana è del 1926 con King Vidor alla regia, e le due superstar dell’epoca (Lilian Gish e John Gilbert) come protagonisti. Se amate i film muti di cent’anni fa, questo merita una visione. Poi negli anni ci sono state altre trasposizioni, ad esempio la “Mimì” del ‘35 (la cui colonna sonora è l’opera di Puccini riarrangiata), o lo sceneggiato RAI del ‘64, ma quella che merita una menzione particolare è quella “Vita da Bohème” francese del 1992 di Aki Kaurismäki, fedele all’originale, tranne l’ambientazione spostata nella Parigi di fine Novecento. Kaurismäki prende in mano il romanzo di Murger e lo racconta a modo suo, firmando uno dei suoi migliori film.

Locandina de "Vita da Bohème". Foto da: imdb.com
@imdb.com

I protagonisti sono sempre gli stessi (uno scrittore, un pittore e un compositore, uno meno dotato dell’altro; mentre il quarto boemo stavolta è invece un cane) che cercano di vivere “da artisti”. Come sempre accade nelle opere del regista finlandese, i tre e le loro esistenze ballano perennemente sulla sottile linea che separa dramma e farsa, e rimane sempre in sospeso la domanda “ma sono delle figure tragiche o solamente degli idioti?” Il tono è sommesso, la loro Parigi è triste e il bianco e nero della fotografia (perché sì, anche questo film è in bianco e nero!) non fa che sottolineare la grigezza delle loro esistenze. Eppure, malgrado tutto questo, c’è quella sottile vena umoristica di sottofondo già presente nel libro di Murger (umorismo nero, s’intende) che Kaurismäki riesce a riproporre appieno, addirittura amplificandola, senza però scadere nella farsa. Ah, credo sia inutile raccontare il destino di Mimì…

Questo per quanto riguarda la “Bohème”, ma anche la “Signora delle camelie” ha conquistato il grande e il piccolo schermo fin dal 1909 anche se la prima versione degna di nota è quella del ‘15, di e con Gustavo Serena, interessante perché è stata restaurata nel 1992 e, nell’occasione, è stata aggiunta una colonna sonora scritta da Ennio Morricone. Poi negli anni si susseguono le versioni di Capellani, quella con Rodolfo Valentino, “Margherita Gauthier” con Greta Garbo (forse la trasposizione più famosa), quella molto teatrale (sia nella regia che nell’interpretazione) con Rossella Falk e anche “La vera storia della signora delle camelie” (1981) di Mauro Bolognini. E qua, però, dobbiamo fermarci un attimo perché la nascita del progetto merita un approfondimento.

Nel 1972 Franco Zeffirelli, sempre lui, finisce “Fratello sole, sorella luna”, il film su San Francesco d’Assisi, e decide di concentrarsi sulla storia di Marie Duplessis, la vera signora delle camelie. Per il ruolo della protagonista pensa a Olivia Hussey, con cui aveva già girato “Romeo e Giulietta” quattro anni prima, ma la Hussey è impegnata con “Orizzonte perduto”. Decide di reclutare allora Liza Minelli, fresca di Oscar per Cabaret, ma il progetto non riesce a prendere forma e viene abbandonato. Sette anni più tardi, nel 1979 quindi, Mauro Bolognini lo riprende per produrlo e dirigerlo. Il gruppo di artisti di cui si circonda è di primo piano: protagonista indiscussa Isabelle Huppert, a supporto Gian Maria Volontè e Bruno Ganz; nel ruolo di Dumas c’è un giovane Fabrizio Bentivoglio e l’attrice che dirige per interpretare Margherita a teatro è Carla Fracci. Musiche ancora una volta di Ennio Morricone. Per la cronaca, il film è vietato ai minori di 14 anni.

Questi sono solo alcune delle trasposizioni delle “camelie”, ce ne sono anche altre e per quasi tutte è disponibile una versione home video.

Locandina di "Moulin Rouge!". Foto: imdb.com
@imdb.com

Questa puntata però è iniziata con la scrittura pressoché contemporanea dei romanzi di Dumas e di Murger, e i due si rincontrano nel 2001 quando il cerchio si chiude: un po’ di Signora delle camelie, un po’ di Bohème, il tutto con musiche pop e rock, mescolate senza vergogna da Baz Luhrmann. E signore e signori, ecco a voi “Moulin Rouge!” Cast nobile con Ewan McGregor, scrittore appena arrivato nella Parigi del 1899 in cerca di gloria e che si unisce ad una compagnia di artisti bohémien a caccia del successo declamando gli ideali di “libertà, bellezza, verità e amore”. Conosce così la stella del Moulin Rouge Nicole Kidman, che canta e balla e fa però anche altre cose (per citare le “camelie” del ‘15, è una persona “molto conosciuta nel bel mondo parigino”), e che con questo film conquista Golden Globe e candidatura agli Oscar. Canzoni perfette (su tutte Nature Boy di Nat King Cole e Lady Marmelade nella versione di Christina Aguilera, Lil’ Kim, Mya e Pink), montaggio frenetico, scenografie opulente con horror vacui e macchina da presa in moto perpetuo (come da tradizione Luhrmann). Il film segna il ritorno del musical al cinema e vince, tra gli altri premi, due Oscar. Naturalmente dopo che la protagonista, alla fine della pellicola, muore di tubercolosi.

Dopo tutti questi lutti è però doveroso citare almeno un film leggero: Un’estate al mare”, commedia a episodi dei fratelli Vanzina del 2008. L’episodio che ci interessa qui è l’ultimo, quello con Gigi Proietti mattatore indiscusso e che è ispirato ad un vecchio sketch di Dino Verde. Proietti è un attore chiamato all’ultimo momento a recitare a teatro la “Signora delle camelie” (che aveva interpretato 30 anni prima), ma non si ricorda una battuta e storpia tutti le imboccate di Spartaco, suggeritore maldestramente incollato a lui.

“Sentito babbo? Non conoscerò mai la dolcezza di Margherita”, “Che mi è ignota e a me ignota resterà!” “Che è mignxxxa e mxxxotta resterà!”

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