Dopo l’anteprima della passata stagione, parte ufficialmente il podcast “Gioie, Gioielli e Gioiellieri”. L’attualità dell’incoronazione di Carlo III mi aveva fornito lo spunto per un numero zero sul Koh-i-Noor o Montagna di Luce, il celeberrimo diamante indiano che dopo secoli continua ad essere fonte di guai per i proprietari, soprattutto se uomini. Tant’è che ora lo indossano solo donne, anzi regine…
Oggi però vorrei cambiare registro e dai giochi di potere dei maharaja indiani e della casata dei Windsor, vorrei accompagnarvi nel mondo della pubblicità americana per raccontarvi come poche, semplicissime parole possano determinare l’affermazione di un prodotto, ma soprattutto possano far sognare generazioni di ragazze in tutto il mondo. So che può sembrar strano parlare di marketing in una rubrica dedicata ai gioielli, ma quella che vi vorrei raccontare oggi è la storia dello slogan pubblicitario di maggior successo del ventesimo secolo, o almeno così è stato decretato da Advertising Age, la pubblicazione più autorevole del settore pubblicitario mondiale.
Mi riferisco ovviamente a “Un diamante è per sempre”, la frase che suggella una delle più straordinarie operazioni di marketing nella storia della pubblicità e delle gioielleria. Un’operazione alla quale ho avuto tra l’altro la fortuna di partecipare.
Tutto ebbe inizio, come spesso succede, con un problema. Verso la fine degli anni Trenta i diamanti sembravano aver perso tutto il loro appeal. Quelli piccoli erano considerati fuori moda, mentre quelli importanti erano considerati appariscenti esibizionismi da gangster. L’americano medio, cioè il consumatore per eccellenza, gli preferiva un’automobile o un elettrodomestico. E con la guerra incombente sembrava non ci fosse futuro per un prodotto che i consumatori non volevano e del quale, soprattutto, non avevano assolutamente bisogno.
Fu così che la De Beers, la società anglo-sud africana che controllava, e tuttora controlla, la gran parte del mercato mondiale dei diamanti, decise di correre ai ripari affidando l’incarico di rilanciare le pietre ad un’agenzia pubblicitaria di Philadelphia, la N. W. Ayer & Sons che, bisogna riconoscerlo, fece un eccellente lavoro.
In prima battuta i dirigenti dell’agenzia decisero di puntare su quella straordinaria fabbrica dei sogni che è Hollywood. E per far questo si rivolsero a Margaret Ertinger, una delle migliori professioniste di Pubbliche Relazioni nel mondo del cinema, e a sua cugina Louella Parson, regina del pettegolezzo dei tempi. Le due signore, per un ragionevole compenso, si diedero un gran daffare per convincere i produttori a inserire nei film coinvolgenti occasioni in cui affascinanti eroi donavano diamanti alle loro belle.
Oggi questa tecnica subliminale di comunicazione viene definita “product placement” ed è diventata fin troppo esplicita e dilagante soprattutto a livello televisivo. Ma allora era un’assoluta novità.
Il progetto ebbe un buon successo ma mancava ancora il colpo di genio, l’emozione vera, quella che smuove le montagne e soprattutto gli acquisti. E l’intuizione venne, paradossalmente, a due spinsters, cioè zitelle, come venivano allora definite le donne single. La prima era Frances Gerety, una redattrice della Ayer che, nel corso di una riunione di routine del 1947, buttò lì, quasi per caso, la frase “Un diamante è per sempre”, affermazione immediatamente screditata dagli altri partecipanti alla riunione (tutti uomini) come qualcosa senza alcun significato. Ma il significato glielo attribuì la responsabile marketing dell’agenzia, tale Dorothy Dignam, che ebbe l’idea di collegarla all’anello di fidanzamento, una tradizione che in America non era molto diffusa, ma che aspettava solo di essere legittimata.
E per farlo la Dignam si rivolse ancora una volta ad Hollywood. Ricordando un musical di Broadway a cui aveva assistito, intitolato “Gli uomini preferiscono le bionde” dove una svampita provinciale cantava “Diamonds are a girl’s best friends” (I diamanti sono i migliori amici di una ragazza), si precipitò nella Mecca del cinema dove si stava girando la versione cinematografica del musical e bombardò la città con il nuovo slogan “A diamond is forever” (Un diamante è per sempre). E quando il film venne distribuito, la superba interpretazione – e non solo – di Marilyn Monroe fece il resto. Tutte le donne volevano essere come lei e agli uomini non restava altro che adeguarsi.
Poi fu tutto un crescendo.
Nel giro di pochissimo tempo nessuna ragazza si considerava fidanzata se non riceveva un anello con diamante, e la febbre, dall’America, si sparse in tutto il mondo, ovviamente sollecitata dalle campagne pubblicitarie della De Beers. Persino le giapponesi, che non avevano alcuna tradizione di gioielli né tantomeno di fidanzamenti, si adeguarono trasformando il Paese del Sol Levante, in piena espansione dopo la seconda guerra mondiale, nel secondo più importante mercato internazionale per i diamanti dopo gli Stati Uniti. Europa e resto del mondo seguirono, Italia compresa, dove le campagne iniziarono nel 1967.
Nel frattempo cinema e letteratura continuarono a rendere omaggio allo slogan. Nel 1956, ad esempio, Ian Fleming intitolò “Diamonds are forever” la quarta avventura di James Bond, riproposta nella versione cinematografica 15 anni dopo con la fantastica colonna sonora cantata da Shirley Bassey.
E, soprattutto, dive e regine di allora e di tutto il mondo continuarono a scambiarsi la promessa d’amore con un diamante.
Da Grace Kelly che gli diede l’imprimatur più glamour, a Elizabeth Taylor con il suo diamante Krupp da 24 carati, a Jacqueline Kennedy che ne ricevette uno di 40 carati da Onassis. E così avanti nel tempo fino alle influencer dei giorni nostri che hanno reso il dono di un anello con diamante un’esperienza assolutamente digitale. Basta vedere i post di Meghan Markle, Kim Kardashian o Paris Hilton, ma anche ricordare l’ormai storica proposta pubblica di matrimonio di Fedez a Chiara Ferragni sul palco dell’arena di Verona!
In Italia però le cose all’inizio non furono così semplici. E qui parlo per esperienza professionale. I termini “fidanzato” e “fidanzata” vengono oggi utilizzati con disinvolta ironia e leggerezza. Ma così non era a fine anni ’60 quando la De Beers si rivolse alla J. Walter Thompson di Milano per rilanciare, a livello popolare, l’anello di fidanzamento con diamante anche in Italia. La missione appariva infatti “impossible”. Da noi la cerimonia del fidanzamento esisteva, anzi esisteva fin troppo! Ed esisteva in pieno periodo di contestazione femminista quando l’idea del tradizionale scambio degli anelli con “i so’ de lu” a casa dei “so’ de lé” faceva accapponare la pelle a chiunque la dovesse comunicare.
Ma esistono per fortuna le ricerche di mercato che, se ben fatte e soprattutto ben interpretate, possono offrire la soluzione a tanti problemi.
Si scoprì infatti che il rifiuto del fidanzamento stava nella parola stessa, nel coinvolgimento delle famiglie e nell’ufficialità dell’istituzione. I ragazzi non avevano niente contro una relazione sentimentale, purché gestita da loro e soprattutto privata. E alle ragazze (anche a quelle con le gonne lunghe a fiori e gli zoccoloni) l’idea dell’anello piaceva.
Eccome, se piaceva!
È stato sufficiente dare una spolveratina al design del prodotto, definirlo “anello d’amore” anziché “di fidanzamento” e mostrare l’intimità di una coppia giovane e moderna con la scritta “Un diamante è per sempre”.
E la magia delle vendite si materializzò di nuovo. Anche in Italia.
Ancor oggi quello degli anelli di fidanzamento è un “caso” studiato nelle principali facoltà di marketing americane, e non solo, come esempio di tecniche di comunicazione innovative, complessità di linguaggio e longevità.
Non è stato infatti mai più cambiato negli annunci e spot pubblicitari della De Beers a riprova che uno slogan, come un diamante, può essere per sempre.
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