Il 16 marzo 1970 esce un nuovo numero di Newsweek con in copertina la silhouette di una donna nuda sfumata di rosso che infrange il simbolo del sesso femminile, in nero su sfondo giallo c’è la scritta Women in Revolt, Donne in rivolta.
Il testo è scritto da Helen Dudar, freelance arruolata proprio per scrivere l’articolo.
Nella stessa giornata 46 donne della rivista annunciano attraverso una conferenza stampa che intenteranno una causa all’editore per discriminazione di genere all’EEOC (Equal Employment Opportunity Commission).
Negli anni 60 le donne nella rivista ricoprivano ruoli di segretarie, addette alla posta, ricercatrici, a volte anche reporter, ma nonostante il loro contributo in redazione fosse essenziale, non potevano firmare gli articoli.
Ne ha ripercorso la vicenda - avendola vissuta in prima persona - Lynn Povich con il libro uscito nel 2012 Good Girls Revolt, How the Women of Newsweek Sued their Bosses and Changed the Workplace.
Da qui è tratto l’omonimo adattamento televisivo disponibile su Prime Video.
Non è esattamente una novità, lo ammetto, perché è uscito nel 2016 e non è riuscito a superare la prima stagione (composta da 10 episodi).
Good Girls Revolt è stato infatti cancellato e nel corso di questi anni Sony non ha trovato nessuna piattaforma disponibile “ad adottarlo”, per approfondire la vicenda.
La storia però è interessante e per certi versi attuale, quindi ho deciso di accendere un riflettore su questa serie TV (vista anche la data di pubblicazione della puntata - 8 marzo).
La redazione dell’immaginario News of the Week è il microcosmo protagonista di Good Girls Revolt; c’è Finn editor in Large che vuole rendere sempre più moderna la redazione e il direttore Wick che invece preferisce essere prudente. Giovani giornalisti di buona famiglia ed altrettante donne – quasi tutte bianche – che fanno da loro braccio destro cercando riscontri sui fatti.
Tra queste emergono tre in particolare che potremmo definire le protagoniste: Patti Robinson che rappresenta a pieno titolo il momento storico, con le sue mise, i capelli lunghi, libera e appassionata di questo lavoro tanto da passare le notti in redazione o saltare su un aereo per intervistare una fonte e fornire tutto il materiale possibile per gli articoli al suo fidanzato Doug.
Completamente diversa Jane Hollander, abbigliamento e acconciatura impeccabili, altrettanto precisa e puntuale. Non sembra avere smanie di protagonismo, la sua strada è già segnata: matrimonio con il fidanzato di sempre (che poi andrà a lavorare col padre di Jane), figli e sempre un passo indietro del marito.
Poi c’è Cindy Reston che scrive le didascalie delle foto, un po’impacciata ed insicura. Ha un matrimonio che non la rende felice e se ne attribuisce la colpa.
L’arrivo - e la veloce dipartita - della giornalista Nora Ephron (uno dei personaggi reali inseriti nella serie) dà il via ad una riflessione sul ruolo che le donne svolgono all’interno della rivista.
Altrove infatti le giornaliste non solo erano presenti nelle newsroom, ma scrivevano e pubblicavano gli articoli col loro nome.
Da qui l’incontro con Eleanor Holmes Norton, all’epoca giovane avvocata ora delegata al Congresso degli Stati Uniti, che ha suggerito la possibilità di intentare una causa (erano già state approvate nel 1963/64 le leggi contro le discriminazioni basate su sesso – anche a livello salariale).
Non fu facile convincere le altre donne ad unirsi alla causa, la paura di perdere il lavoro era alta come sottolineato anche dalle persone a loro vicine che cercavano di dissuaderle. È interessante notare quanto in quegli anni, fosse da una parte tollerata la libertà femminile e dall’altra invece si volesse mantenere uno stile anni 50 (con le donne a casa a cucinare e accudire i figli).
Per questo si parla di brave ragazze - good girls - che dovrebbero essere felici di avere un lavoro prestigioso e che fanno parte di una minoranza privilegiata, a differenza delle donne che sono in piazza a manifestare…nelle ultime puntate c’è proprio un passaggio sull’argomento.
Tornando alle nostre tre protagoniste, quelle che maggiormente si evolvono e prendono consapevolezza del loro ruolo sono sicuramente Jane e Cindy, mentre Patti che fin da subito appare come la più libera, di fatto non compie pienamente un percorso di crescita. Ho rivisto di recente la serie e ho fatto caso ad alcuni dettagli che non ricordavo.
La serie nonostante le buone recensioni da parte del pubblico, non ha fatto breccia tra i critici.
Serena Donadoni su Village Voice ha scritto "Anche con le scelte discutibili, questa serie ben intenzionata e positiva per le donne (le donne hanno diretto sei dei 10 episodi) è un intrattenimento che fa riflettere. Ma in questo momento – 2016 - dopo un'elezione in cui i diritti, la dignità e le capacità delle donne sono state sommariamente respinte, non è abbastanza".
Invece Jen Chaney su New York Magazine nel suo articolo intitolato “Good Girls Revolt è la versione diluita di Mad Men”, ha sottolineato che forse i maggiori problemi sono l’incertezza e il ritmo lento, che impediscono di essere un'esperienza visiva davvero eccitante.
Ma cosa è successo dopo? La causa è stata vinta, ma la rotta non è stata del tutto invertita. Non tutte le donne volevano fare le giornaliste o ne erano in grado e a fronte di 5 assunzioni di donne nella redazione del Newsweek a metà degli anni 70 c’erano 15 uomini assunti.
All’interno del libro, Lynn Povich riporta le storie di 3 giornaliste della stessa rivista che nel 2009 lottavano ancora per l’eguaglianza di genere.
Il movimento per i diritti civili e il movimento delle donne non hanno risolto tutto, c’è ancora molta strada da fare prima di ottenere una vera uguaglianza. Ciò che è interessante per me è che stavano provando le stesse frustrazioni che sentivamo, di non essere ascoltate. Di vedere giovani uomini con le stesse qualifiche o meno ottenere incarichi migliori e proseguire la carriera più velocemente. Eppure queste donne sono cresciute sentendosi dire che potevano fare o essere qualsiasi cosa, quindi non la vedevano come una discriminazione perché le guerre sul sesso sono finite e ora siamo tutti uguali.
Non erano sicure di cosa fosse e come molte donne tendevano ad incolpare se stesse, di non essere abbastanza brave o talentuose. È così che ci siamo sentite anche noi. Scoprendo il nostro caso e parlando con noi, hanno aperto gli occhi rendendosi conto che il problema non erano/sono loro, ma il sistema che deve essere modificato. In molte media company c’è ancora uno stile vecchio club per uomini, la cultura aziendale arriva dall’alto quindi se un uomo preferisce circondarsi di suoi simili, sarà difficile avere spazio per le donne. Credo sia necessario cambiare la cultura aziendale, dobbiamo fornire vantaggi e flessibilità ai genitori che lavorano (donne e uomini) – una situazione difficile con un lavoro come il nostro. Molte rinunciano, anche quelle molto qualificate.
Il più recente rapporto redatto da Women's Media Center a fine 2021 sottolineava che la disuguaglianza di genere nelle redazioni americane continua in tutti i media. C’è anche un problema salariale, al Los Angeles Times, le donne guadagnavano 30 centesimi meno per ogni dollaro guadagnato dagli uomini. Alla Reuters, dove i primi 10 salariati erano uomini, i dipendenti Black e Latinx venivano pagati in media $ 10.083 in meno rispetto alle loro controparti bianche, e le donne guadagnavano in media $ 2.020 - o l'1,6% - in meno.
Il 79% delle 115 giornaliste donne intervistate negli Stati Uniti ha affermato che le molestie online hanno influito sulla libertà di stampa e, alcune hanno aggiunto, la paura degli abusi online ha fatto sì che evitassero di riferire su determinati tipi di storie, secondo il Dipartimento di comunicazione dell'Università di Seattle.
Questi sono alcuni dei dati presenti del rapporto (è possibile leggerlo e scaricarlo qui).
Insomma, nonostante siano passati 53 anni da quel 16 marzo, le cose sono solo in parte migliorate.
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